

Rievocare i tempi di “Roma Ladrona”
alla luce della recente evoluzione della Lega è ormai poco più che
uno stanco luogo comune giornalistico, ma certo ancora è difficile
abituarsi al fatto che
Matteo Salvini arrivi nella capitale e trovi
1500 persone ad acclamarlo.
È accaduto ieri sera, in un Teatro
Brancaccio strapieno. Accanto al segretario del Carroccio ci sono il numero
uno di Noi con Salvini, il senatore Raffaele Volpi, e il presidente
di Sovranità, Simone Di Stefano.
Tanti i giornalisti, qualcuno dei
quali in attesa di un folclore di cui invece non ci sarà traccia, ma
soprattutto tanta gente comune. Dalle borgate e dai quartieri bene.
Giovani alla prima esperienza politica e veterani di lungo corso.
Situato in via Merulana, il Brancaccio è a due passi da via
Napoleone III, dove al numero 8 si trova la storica sede di CasaPound
Italia. La presenza dei militanti della tartaruga frecciata, in sala,
è massiccia, ma l'interesse per Salvini è di genuina estrazione popolare.
Basti pensare che fuori dal teatro c'è la fila già due ore prima
dell'inizio dell'evento. In sala il pubblico è composto, si scalda
solo ogni volta che viene nominato Alfano.
Negli interventi di
apertura, Volpi parla della natura sociale e popolare del fronte
salviniano: “Noi non facciamo cene elettorali da mille euro con
quelli a cui poi il giorno dopo facciamo concessioni milionarie”,
tuona il senatore, e a Palazzo Chigi a qualcuno fischiano le
orecchie.
Per Di Stefano è una vera e propria ovazione. Inizia
evocando Amendola: “Io sono cresciuto alla Garbatella e non l'ho
mai visto”. Poi evoca la necessità di un dialogo fra protagonisti
della politica che vengono da realtà diverse, che forse su molte
cose sono destinati a rimanere diversi, ma che possono incontrarsi su
una piattaforma programmatica di lotta alle lobby, alle caste, alle
élite corrotte, alle mafie culturali progressiste. “Quando ho
incontrato per la prima volta il senatore Volpi ero pieno di
pregiudizi”, dichiara Di Stefano. Volpi, che è accanto a lui,
interviene ridendo: “Anche io”.
Poi la stretta di mano e i
reciproci attestati di stima. Salvini ha lo sguardo sull'iPad, ma non
può non aver recepito il messaggio, che è soprattutto diretto a
lui: non esiste alcun fascioleghismo, non c'è bisogno di improbabili
sintesi o di conversioni incrociate, basta parlarsi francamente per
trovare una intesa.
Al leader leghista, che indossa una maglietta per
i Marò, è concesso un lungo spazio con due giornalisti (“ma non
chiamatelo talk show, mi sembra un po' sfigato”). Spiega che l'Ue “è una associazione a delinquere”,
che se va al governo lui “saremo noi a mandare i commissari in
Europa”.
Ma aggiunge anche che l'Europa, quella vera, è altro
dalle Ue e che l'edificio continentale “va rifondato”, senza
utopistici salti all'indietro. Quanto alla Libia, “bisogna cercare
l'accordo con le tribù che governano la costa” e comunque
“affondare i barconi”. Vuoti, precisa. Il giornalista obietta che
sarebbe un atto di guerra. “E allora faremo quest'atto di guerra”,
è la risposta.
Non manca il consueto elogio a Putin (“se non ci
fosse stato lui avremmo bombardato i siriani sbagliati”) e verso la
fine c'è anche modo di parlare dei rapporti fra Lega e Sovranità,
il contenitore politico nato per volontà di CasaPound ma ben presto
allargatosi oltre i confini della comunità guidata da Gianluca
Iannone: “C'è un progetto in corso, se non fosse così io e di
Stefano saremmo degli stupidi a fare così tante iniziative insieme.
E poi per mandare a casa Marino c'è bisogno di tutti”.
Finisce fra
applausi e tricolori che sventolano. I cronisti si avventano su
Salvini, lui riprende il microfono: “Vado un attimo dai
giornalisti, poi sono qui a disposizione di chiunque voglia farsi
delle foto con me”.
G.N.